John Martin, (il cui vero nome era Giovanni Martini), era nato a Sala Consilina, in provincia di Salerno, il 28 gennaio del 1853.
Emigrato in America e non avendo trovato lavoro, si era arruolato nell'esercito americano divenendo così John Martin, soldato trombettiere dell'Esercito degli Stati Uniti. Ma il fato volle che Martin finisse proprio al 7° reggimento cavalleria del Generale George Custer. Come dire “staccare un biglietto d’imbarco per il Titanic”!
Ma lui non lo sapeva! Anzi, pensava con gioia a come erano lontani i giorni monotoni al suo paese, la valigia di cartone in terza classe e il cuore gonfio di nostalgia per una terra che, nonostante fosse la sua terra, non gli aveva offerto proprio nulla. Giovanni Martini aveva lasciato tutto il suo passato alle spalle: ora c'era John Martin, che si apprestava a combattere vicino al mitico generale Gerge Custer e tutto questo lo inorgogliva, lo eccitava. Sapeva tutto del suo superiore e, come tutti gli altri soldati, subiva il fascino di un uomo che oggi avrebbe avuto certamente bisogno di 100 sedute di psicanalisi.
I libri di storia ci dicono che alle tre e mezzo del pomeriggio del 25 giugno del 1876, il 7° cavalleria si portò su una delle alture della vallata in cui scorreva il fiume Little Big Horn. Fu proprio in quel preciso momento che John Martin si sentì gelare il sangue. Non era necessario essere uno stratega per rendersi conto che nella vallata c'erano migliaia di guerrieri che si erano riuniti per presentare il conto al "figlio della stella mattutina" (il soprannome che si guadagnò Custer dai Sioux per la sua abitudine di attaccare gli accampamenti alle 6 del mattino, a tradimento).
Il resto di quella tragica vicenda si sa. Spinto dalla bramosia di ricevere qualche spallina in più, Custer decise di attaccare e prima di fare questo ordinò a Martin di mettersi subito in sella per chiedere rinforzi.
Anche se perplesso per lo strano ordine ricevuto, Martin sapeva bene che non era il caso di contrariare il Capo e giunto al termine della colonna si girò un attimo indietro, il tempo di vederlo per l’ultima volta mentre alzava il braccio nel segnale di "avanti. Allora il trombettiere capì che non c'era più un istante da perdere, mentre la sua incrollabile fiducia nel "generale" vacillava, cominciava ad incrinarsi.
Galoppava. “Cosa poteva sperare di fare con poco più di duecento uomini, contro migliaia di pellerossa?” Ma un soldato non si fa queste domande, gli ordini sono ordini. Galoppava. “Che voglia di piangere e di scappare.! Ma un soldato non scappa, non piange, e poi lì c’è gente da salvare, ci sono i tuoi compagni che sperano solo in te. Galoppava. Sente il ritrovato desiderio di essere a casa sua, magari a patir la fame, ma vivo e senza l’odore di morte che avvertiva attorno. Galoppava. Fino a tramortire il suo cavallo.
Quel giorno in quella valle trovarono la morte duecentoquarantadue uomini, guidati in una assurda carica contro cinquemila pellirossa. John Martin era l’unico sopravvissuto.
Dopo la tragica esperienza di Little Big Horn avrebbe desiderato una vita nell’ombra, ma non fu possibile. Era stato l'ultimo a vedere Custer vivo e si trovò per anni ad essere interpellato dalla commissione d'inchiesta per stabilire le cause di quel disastro. Le sue versioni, col passare degli anni, si erano fatte spesso confuse, ma una cosa di sicuro non aveva mai dimenticato: la secca voce del "generale" che lo chiamava per dargli, senza saperlo, l'ordine che gli avrebbe salvato la vita. Morì a Brooklyn il 24 dicembre 1922.
Questa è la storia di Giovanni Martini ma, vi direte, che c’entra questa storia?
Di Martin quasi nessuno sa nulla, in pochi conoscono la sua storia. Custer, seppur deficiente e folle, è quasi diventato un mito, un eroe nazionale. Quanti ne sono esistiti come Custer?
Come nel film di Totò, “Siamo uomini o caporali?” è sempre il caporale, il sottoposto, a rimanere coi piedi per terra cercando di far rinsavire chi è accecato di gloria, di presunzione, di superbia, di fargli capire che in fondo non ne vale la pena continuare, che non è vero che la guerra è bella anche se fa male, che l’ascia di guerra che ogni tanto viene dissotterrata si abbatte soltanto sui poveretti, sulla carne da macello, sui caporali insomma. Qualche volta il caporale ci riesce, anche se nessuno saprà mai che il merito è stato suo. A volte no, perchè il Caporale perde sempre, anche se è nel giusto. Il Generale vince, anche se sbaglia.
“Il generale Leone ordina ad un caporale a sfidare il pericolo e ad affacciarsi sulla trincea: ""Bravo!", grido' il generale."Ora puoi scendere". Dalla trincea nemica partì un colpo isolato. Il caporale si rovesciò indietro e cadde su di noi. La palla lo aveva colpito alla sommita' del petto.
Il sangue gli usciva dalla bocca. Gli occhi chiusi, il respiro affannoso, mormorava: "Non e' niente, signor tenente". Anche il generale si curvò mentre i soldati lo guardavano con odio. "E' un eroe”, commento' il generale. "Un vero eroe".
Quando il generale si drizzò, i suoi occhi si incontrarono con i miei. Fu un attimo. In quell'istante mi ricordai d'aver visto quegli stessi occhi, freddi e roteanti, al manicomio della mia citta', durante una visita che ci aveva fatto fare il nostro professore di medicina legale." (Emilio Lussu, "Un anno sull'altipiano").
I disastri di questi imbecilli saranno ricordati per sempre nelle enciclopedie sotto forma di eventi gloriosi, ma a pagare il conto della loro stupidità al destino sono stati sempre gli uomini, gli uomini veri, quelli che impotenti di fronte alla follia del potere sono stati costretti a percorrere con stivali di cartone trincee insozzate di fango e cadaveri, di bustarelle e lettere mai arrivate. E morire per chissà quale patria fra il gelo e le pallottole, morire per chissà quali ideali inventati dalla propaganda soltanto per l’ingordigia un solo uomo, sempre lui: il Generale. Ma per Generale intendo tutte le “cupole” dell’idiozia umana, riunite in un’unica persona. La canzone che più di tutte riassume la “cupola” e i “caporali” è Generale di Francesco De Gregori.
Di questa canzone ne hanno parlato e scritto in tanti. E’ un inno dedicato ai prepotenti, ai guerrafondai, a tutti gli aiutanti di campo che cercano di convincere chi, affamato di ambizione e di qualche patacca in più sul petto, brancola nella sua personale follia fatta di fallimenti che spesso e volentieri coinvolgono anche gli innocenti, quelli sani di mente.
Francesco De Gregori ha sempre detto che Generale nacque dalla lettura di Addio alle armi di Hemingway ma, senza volerlo, ha scritto qualcosa che va oltre quel romanzo. Che fra l’altro è un romanzo d’amore perché il protagonista è innamorato di un’infermiera che conosce prima della guerra, ecc.
Fu affascinato dalla storia di Frederick, uno di quelli convinti che “la guerra è bella anche se fa male”, uno che credeva ciecamente in certi ideali, ma che dovette ricredersi quando a Caporetto, a bordo di ambulanze senza benzina si rese conto che invece la guerra fa male, che non era come credeva lui, che i soldati in caotica ritirata non erano affatto a favore di quella interminabile guerra voluta da altri e da disonesti interessi. Tutto questo lui vide in quell’ammasso di divise verdi che prendevano a calci gli ufficiali (finalmente!). E fu lì che rifiutò il suo candido concetto di guerra: perse la fiducia nei valori come il patriottismo e l'eroismo. Valori che aveva sempre coltivato, al punto di arruolarsi volontario (lui americano) per combattere la guerra di altri.
Credo che Francesco abbia immaginato Frederick sul treno che lo portava a casa e che seduto davanti al finestrino, in veloce sequenza, vicino al confine vede tutte le immagini che si presentano davanti al treno in ritirata dopo la sconfitta: la contadina cinquantenne che aspetta i suoi cinque figli non ancora tornati, nuove e diverse colline coperte non di sangue ma soltanto di aghi di pino e funghi buoni da mangiare a Natale e un sipario che sul vetro arriva veloce all’incontrario, finalmente chiaro, pieno di sole. E tutto questo sfogo lo manifesta a un invisibile Generale che gli sta seduto davanti. E se lo immagina col bavero alzato e la barba lunga, sconfitto, stanco, sfiduciato, disilluso, arreso, fuggiasco, addirittura un disertore. Ma adesso e soprattutto un uomo. Un uomo come lui, lontano da quella figura di semidio che lui ha sempre fantasticato nella sua anima e che adesso lo delude ferocemente. Parla al Generale, ma l’interlocutore è la figura metaforica della cattiveria dei potenti sulla terra: Caro mio, quelle cinque stelle che porti sulle spalle non hanno più senso in mezzo al rumore che c’è dentro questo treno, perché non ti strappi anche quelle, oltre ai tuoi capelli disperati? Ormai che senso hanno? Non lo avverti questo rumore? Non li senti cantare? Non vedi che questi nuovi suoni non hanno niente a che vedere con quelli del viaggio di andata? Questi sono rumori di gente che sta tornando a casa, felice di mandare a fare in culo te e chi ti ha mandato fra noi per ridurci così, come beste! Tanta è la fretta che hanno di tornare a casa, questi passeggeri calcolano in due minuti il tempo del tragitto fino all’ultima stazione. Poco, troppo poco per scendere e pisciare! Il treno poi riparte, non aspetta, ha fretta.
Io ero come te, ci credevo, ma mi hai fregato, mi avete fregato! Adesso ti odio, adesso anch’io ho voglia di ritornare dritto a casa, perché guardando fuori dal finestrino mi accorgo che non è vero che la guerra è bella anche se fa male. Perciò, Generale, se questa guerra deve proprio farsi, cavolo, fate almeno che non sia cattiva!
Se i potenti della Terra (Bush in testa) leggessero il testo di Generale ogni sera prima di andare a letto, come una preghierina, forse vivremmo in un mondo migliore.
Mimmo Rapisarda
[Modificato da mimmorapisarda 24/11/2006 18.49]