passi tratti dal libro di CLAUDIO CISCO "il vecchio e la ragazza"

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Claudio Cisco
00giovedì 21 maggio 2020 19:32
passi tratti dal libro di CLAUDIO CISCO "il vecchio e la ragazza"
"IL VECCHIO E LA RAGAZZA"



Un vecchio di 65 anni,
un’adolescente di 15.
Due età apparentemente distanti,
due vite che si svolgono parallelamente
nel cuore della Sicilia
ma sotto un unico triste denominatore:
la solitudine.
Ma il destino che sfugge ad ogni regola
li fa incontrare,
la natura che obbedisce alla legge vera dell’istinto
e non alla morale,
fa il resto.
I due si uniscono carnalmente e mentalmente
semplicemente perché ne sentono entrambi il bisogno.
Un libro scandalo
che si schiera contro la criminalizzazione del pensiero
e va oltre la sciocca e viscida censura,
presentandosi al lettore
come espressione più vera della libertà umana.

"Ho sempre considerato lo scrivere come una confessione
so di rischiare di essere messo al rogo
a causa di questa mia libera ed illimitata sincerità
ma sono altresì consapevole
di non potervi assolutamente rinunciare"
CLAUDIO CISCO

...Mosè
Lo si riconosceva subito, distinguendolo tra un milione di persone, osservandolo da vicino così come da lontano, di fronte o di spalle; era unico, inconfondibile, inimitabile. Sì, era proprio lui, era impossibile sbagliarsi. Aveva appena compiuto 65 anni, una strana età un po’ per tutti, in cui si viene considerati anziani, da qualcuno addirittura già vecchi, anche se la vecchiaia, così come la giovinezza, non è necessariamente e del tutto riconducibile ad un dato anagrafico ma, il più delle volte, è espressione di un modo di essere, di sentirsi e di operare.
Si può essere vecchi e spenti perfino a 20 anni, mentre ci si può sentire giovani anche a 80. Insomma tutto è relativo, molti sono giovani di fuori e vecchi dentro e viceversa. Ma lui, i suoi anni, almeno esteticamente, li dimostrava tutti per intero, anzi qualcuno in più. Non curava minimamente il suo abbigliamento e tanto meno la sua figura ma si lasciava andare trascinandosi per com’era come chi si sente ricco per quello che possiede dentro e non per come potrebbe apparire di fuori. I suoi capelli erano bianchi, spettinati ed arruffati in qualunque istante della giornata come se si fosse alzato dal letto proprio in quel momento.
Non erano moltissimi ma non lasciavano trasparire alcun segno di calvizie malgrado l’età. La sua barba giaceva sempre lì, al suo posto, da sempre e per sempre, bianchissima come nuvola o zucchero filato o meglio ancora panna, quasi argentata, lo stesso identico colore dei capelli. Una barba incolta, anch’essa non curata, nel più completo abbandono, lasciata crescere così come capita, senza forma o stile, in perfetta paradossale armonia col resto della persona. Sembrava, quella barba, un orticello negletto, lasciato al suo destino, senza la mano amorevole d’un contadino o d’un giardiniere che lo coltivasse per riceverne in cambio i frutti. La sua faccia era rugosa ma non lasciava intravedere un’età senile troppo avanzata. Quelle sue rughe, partendo dalla fronte, si dipartivano in tutto il resto del viso alternandosi però a squarci di volto ancora lisci e quasi infantili come un albero già grande che mostra attaccati ai suoi rami, frutti maturi ed altri ancora acerbi. Un contrasto particolare di vecchiaia e giovinezza, di maturità e incoscienza, di saggezza ed infantilità insieme, che rendevano il viso di quell’anziano particolarmente ammirevole, splendente d’una luce capace di illuminare ed irradiare chiunque la osservasse. Una luce in grado di proiettare all’esterno il bambino mai cresciuto che aleggiava ancora dentro di lui, costretto a dimorare, suo malgrado, in un corpo non più infantile. Anche i suoi occhi non stonavano affatto con quell’armonia di impressioni. Ma anzi lo rendevano ancora più affascinante perché vispi, indagatori, attenti e profondi, di colore castano che volgeva timidamente al verde, dentro i quali, in età ormai lontana, una ragazza innamorata avrebbe potuto meravigliosamente specchiarsi, fino ad esserne completamente rapita, soggiogata, stregata. I suoi denti, a dispetto dell’età e del fumo delle sigarette, si mostravano ancora straordinariamente bianchi, d’una bianchezza simile a quella dell’avorio, erano rimasti intatti, del suo colore naturale, tali da far invidia ad un giovane. Persino le labbra sembravano virili, fresche e morbide come fossero ancora pronte a ricevere il bacio di un’amante. Era, visto nel suo complesso, il viso d’un uomo avanti con gli anni ma che dimostrava appieno la sua vitalità, quella vitalità che poteva essere presente in un giovane rivelando un inquieto e misterioso fascino.
Segnale d’una antica bellezza che, anche se sfiorita inevitabilmente col trascorrere del tempo, in un’età lontana, poteva benissimo essere stata viva e seducente, tale da riuscirsi a cogliere ancora adesso. Anche nell’espressione del suo sguardo, vi era qualcosa di magico, pareva quella di un giudice severo che stava per emettere una sentenza da un momento all’altro, ma al tempo stesso, cambiando d’atteggiamento, paradossalmente, dava l’impressione di essere uno sguardo rassicurante come quello di un padre nei riguardi del proprio figlio. Un modo di guardare vigile e intenso, contraddittorio a volte, fedele specchio, del resto, della sua persona senza certezze, sempre in bilico con se stesso, senza una strada ben precisa sulla quale muovere i propri passi o una meta già stabilita da raggiungere. Era la sua, la filosofia di vita di chi vive alla giornata, di chi non cancella in un sol colpo il suo passato ma non guarda nemmeno per un momento al suo futuro. Lui non programmava mai le sue scelte in prospettiva futura né si chiedeva cosa succederà domani, gli interessava soltanto cosa fare adesso, immerso solo ed esclusivamente nel suo presente, che era l’unica realtà che contava. Quella luce che, sia pure offuscata dagli anni, gli brillava ancora in viso, non era invece riscontrabile nel suo fisico che appariva invecchiato, appesantito con qualche chilo di troppo, specie nella pancia che si notava in tutta la sua rotondità. Tutto ciò veniva ancor più messo in evidenza, in negativo, dal suo modo di vestire che era assolutamente sciatto, totalmente trasandato e dimesso, pareva vestirsi con quello che capitava, il minimo indispensabile per non uscire svestiti. Era privo di ogni gusto estetico, a volte indossava sempre le stesse cose. Dava l’impressione di un barbone che non amava né l’ordine né la pulizia e che preferiva non curarsi abbandonandosi a se stesso e al proprio destino. Il suo nome di battesimo era Giovanni, non dirò il suo cognome non ritenendolo importante od opportuno nello svolgimento del racconto, ma tutti lo chiamavano col soprannome di Mosè, proprio per quel suo aspetto patriarcale, da profeta che richiamava, sia pur lontanamente, a quel famoso personaggio biblico che ricevette sul monte Sinai, i comandamenti da Dio. Quel nome gli era stato affibbiato da qualcuno tanti anni fa e, come spesso accade in simili circostanze, si era propagato subito di bocca in bocca, sino a sostituire quello vero a tal punto che da allora, per tutti lui si chiama Mosè e quasi nessuno, adesso, conosce più il suo vero nome.

... Fia
Un orsacchiotto di peluche piccolino con uno sguardo timido ed impaurito, seduto, appoggiato sul muro della sua cameretta. Una bambola grande e strana con un’espressione da far paura, inquietante e misteriosa, quasi fosse venuta dal nulla, con due occhi di ghiaccio e con addosso soltanto le mutandine, sembrava la bambola assassina, un po’ sadica e un po’ sexy. Un paio di posters attaccati al muro raffiguranti i volti di idoli musicali, belli come divi da fotoromanzi. Qualche strano disegno che mostrava tombe, cimiteri, sangue, atmosfere surreali ed indecifrabili, almeno a prima vista. Più sopra, in un angolo del muro, attaccato ad un chiodo, uno scheletro di gomma, color verde fosforescente, che penzolava ondeggiando qua e là, muovendosi più forte quando v’era una corrente d’aria ma che non incuteva molta paura, pareva appartenere ai cartoni animati più che ai films dell’orrore. E poi, sulla scrivania, un computer portatile nuovo con la relativa tastiera, dei libri, quaderni, parecchie foto in cornici col suo viso in diverse e svariate espressioni. Un astuccio aperto con dentro un sacco di penne e matite sparse qua e là, alcune delle quali per terra. Un televisorino piccolo ma di bell’aspetto col telecomando, un videoregistratore, dei cd, un cellulare e lì vicino uno stereo di dimensioni ridotte ma di valore, molto sofisticato e tecnologicamente avanzato. Continuando a girare con lo sguardo per quella cameretta di inequivocabile fisionomia giovanile, vi si poteva scorgere un lettino per una sola persona con delle lenzuola bianche lo stesso colore del cuscino ed una coperta più scura, molto leggera, abbassata sino a metà letto. Sopra vi erano vestiti d’ogni tipo e per ogni stagione, da notte e per uscire, molti dei quali sarebbero dovuti stare dentro l’armadio e non lì sopra. L’armadio vi era, ovviamente, in quella stanza ma si presentava con uno dei sportelli aperti che lasciavano vedere un’infinità di vestiti ed indumenti vari, uno sopra l’altro, così come capitava, alcuni arrotolati come fogli di carta straccia senza alcun ordine e la benché minima cura. Quella stanza, al primo sguardo, era il ritratto del disordine che regnava ovunque e in qualsiasi cosa. E lì dentro, davanti allo specchio più impolverato che lucido, vi era lei, bellissima con i suoi quindici anni compiuti da due mesi, lei che col suo aspetto annullava, come per magia, tutto il disordine che vi era intorno concentrando su di essa grazia, armonia, giovinezza. Prepotente, catturava quello sguardo indagatore che poco prima frugava fra le cose della sua stanzetta. Vi riusciva con la vitalità e la sensualità della sua età, rendendo lecito e giustificabile, tutto ciò che di sbagliato e di fuori posto vi era lì dentro. Lei ora rappresentava il centro, il motore, la parte principale di quella stanza come se tutto vi ruotasse intorno. Lei, l’adolescente, indiscussa protagonista, attrice, stella del firmamento, giovanissima dea nata per amare ma soprattutto per essere amata. Quell’ipotetica telecamera nascosta dentro la sua camera adolescenziale per spiare le sue cose, il suo mondo che io stesso era come se avessi piazzata, ora non poteva che soffermarsi su di lei mentre si guardava allo specchio, in quella mattina inoltrata d’agosto. Quando una ragazza o una donna in genere, si alza dal letto, senza trucco e tutta in disordine, mostra realmente il suo fascino o la sua bruttezza, senza inganni, senza maschere. È proprio in quel momento che appare come realmente è, come un’attrice dietro le quinte di un palcoscenico, finita la recita. Lei, la quindicenne, era bella e provocante anche in quel modo. Lunghi capelli neri lisci e lucenti le coprivano le spalle, delicatamente e con armonia come una giovane puledra con la sua criniera al vento che leggiadra, galoppa libera tra i campi, talmente viva e ammaliatrice da lasciarsi correre dietro mille stalloni. Apparivano spettinati quei capelli ma soltanto in fronte e sulla parte alta della testa, era un leggero disordine che anziché richiamare alla negligenza e alla noncuranza come tutta la sua stanza, riconduceva meravigliosamente ad una bellezza giovanile e precoce, ad una sensualità gitana, vibrante, animalesca e selvatica, ritratto di una creatura figlia della concupiscenza ma ricca di celestiali virtù, come angelo del diavolo. Vista da dietro mentre continuava a specchiarsi, pareva una giovanissima tigre che ruggisce ma anche una tenera gattina che fa le fusa. Tutte sensazioni contrastanti che, agli occhi di chiunque la spiasse, penetravano come una lama appuntita nella carne lasciando un brivido sulla pelle, come il ghiaccio sulle foglie che, sciogliendosi, lascia gli alberi a tremare. Ma queste vivide e laceranti sensazioni, potevano essere avvertite e decifrate, soltanto da chi possiede l’arte nel sangue, nel proprio Dna, da chi ha innato dentro quell’erotismo prorompente ed inarrestabile che porta a guardare una donna, in questo caso una ragazza, con gli occhi della magia e del desiderio. Desiderio che non nasce dal peccato come vorrebbero farci credere, ma dal candore dell’innocenza che spruzza sensualità da tutti i pori. Tutta questa autentica forza della natura, può offrirla solo la giovinezza che fiorisce, l’adolescenza che rapisce e trasporta con sé in mondi inesplorati e che non è mai sinonimo di volgarità ma sempre espressione di felicità, gioia, paradiso terreno. Cosa c’è di più bello su questa terra e forse anche in cielo, dell’ammirare un giovane corpo d’adolescente che è arte, armonia, bellezza, piacere? È l’essenza stessa della vita, il vero motivo per cui vale la pena vivere.


... Mosè
Le chiacchiere della gente, sempre pronte a ficcare il naso e a giudicare i fatti degli altri, nascondendo quelli propri, dicevano che fosse di origine nobile, qualcuno sosteneva anche che fosse stato addirittura un conte e che avesse vissuto in un castello pieno di ricchezze ereditate da lontani avi benestanti. Dicevano anche che poi, per sua libera scelta, avesse rinunciato a tutto decidendo di vivere in assoluta libertà e povertà, campando di espedienti ed elemosine, aiutandosi con qualche lavoretto saltuario. Le male lingue dicevano ancora che non fosse stato mai sposato, ma sulla sua vita sentimentale, vigeva il più assoluto e totale mistero. Chissà se ha mai conosciuto l’amore o se ha vissuto anche da giovane sempre solo! Chissà quante donne ha corteggiato e quante hanno ricambiato questo interessamento! Certo è che, guardandolo adesso, dà l’impressione di essere talmente abituato alla solitudine, da non aver bisogno di niente e di nessuno. Sembra in perfetta armonia con se stesso, come chi gusta appieno la propria libertà che rappresenta l’unica vera ricchezza, quella d’un uomo che non è mai sceso a compromessi con la società troppo spesso bigotta e perbenista. Ai miraggi dei soldi e della posizione sociale, lui ha saputo preferire la bellezza e la poesia d’una vita viva e vera, colma di interiorità, di profondità, quasi da artista o eremita, fuori da ogni schema. Del resto, non sempre un uomo sente il bisogno di confrontarsi o di integrarsi con la società, spesso ci si può sentire soli pure in mezzo a milioni di persone, perché non si è capiti o compresi o si viene ignorati del tutto. Lui, Mosè, tutto questo lo sapeva bene perché l’aveva sperimentato su se stesso, e aveva scelto quel suo stile di vita, in ogni caso da rispettare, come un angelo caduto su questa terra che come sola compagnia, aveva lui stesso, l’unico che lo conosceva bene e, per questo, non poteva mai tradirlo. Trovava assolutamente normale parlare con sé e rispondersi da solo. E in quelle rarissime volte in cui gli sembrava che non si ascoltasse, si rivolgeva a quella natura che i credenti chiamano Dio, unica consolatrice, confidente di anime solitarie che, non potendo o volendo esternare il proprio amore su altre persone, lo riversano per intero su di essa, guardandola con gli occhi dell’amante. Il terzo ed ultimo confidente dopo se stesso e la natura, era rappresentato dal suo quaderno che utilizzava quasi come una sorta di diario nel quale aprirsi come in confessione. Mosè scriveva spesso su quei fogli di carta, scriveva tanto, specie quando ne aveva voglia o ne sentiva il bisogno. Annotava tutto ciò che gli passava per la testa: pensieri, emozioni, considerazioni, commenti. Lì buttava giù così, senz’ordine e senza data, come li sentiva dentro e in maniera istintiva. A volte scriveva anche testi di canzoni napoletane classiche: Reginella, Marinariello, Torna a Surriento e tante altre ancora, un genere che lui adorava e che suonava spesso con la chitarra o ascoltava alla radio. Non conosceva bene le note musicali ma nonostante questo era capace di suonare molto bene ad orecchio e, spesso, anche ad improvvisare canzoni inedite da lui stesso create. Aveva l’anima d’artista, e come poteva non essere così per un uomo come lui e con la vita che conduceva? Era bravissimo anche a scrivere commedie teatrali usando un linguaggio squisitissimo, ironico e pungente nello stesso frangente. Peccato che nessuno l’abbia mai preso in considerazione, riconoscendogli il giusto merito. Perché Mosè, di talento, ne aveva da vendere e ne aveva davvero tantissimo ma l’attenzione che i cosiddetti critici d’arte gli rivolgevano, era praticamente offuscata da quel suo modo trasandato di presentarsi che, agli occhi di chi giudica solo per come uno appare, non meritava considerazione alcuna. E chissà quanti altri talenti nascosti, quante anime artistiche sconosciute che ci sono in circolazione, restano in ombra. Un autentico spreco di talenti, di arte, di emozioni che non possono comunicare e che rimangono inespressi, morendo, ripiegandosi su se stessi. È una miniera di ricchezza che si perde! Mosè sapeva fare un po’ di tutto in campo artistico. Era bravo e portato anche a recitare. Era nato per fare l’attore, sapeva stare in scena. Aveva quella tipica mimica, quelle mosse, studiate e involontarie, che sanno fare i bravi attori senza distinzione fra teatro e vita, proprio come lui. Vi è una foto che lo ritrae con un cappello in testa in una tipica espressione teatrale. È un’immagine bellissima che meriterebbe d’essere scolpita o trasferita in un quadro, ritrae perfettamente la sua inclinazione all’arte in genere.


... Fia
Ora la ragazza afferra un pettine e prova a schiacciare verso il basso, aiutandosi con la mano, quei suoi capelli alzati in aria come cresta di gallo, dopo una notte di sonno. Ma non ve ne era proprio bisogno. A quindici anni si è belli sempre e comunque, specie se si è come lei. Ora guardava se stessa allo specchio come se si trattasse di un’altra persona, di un’amica, di una coetanea ma non si giudicava, ormai sapeva benissimo da sempre, di essere desiderabile ed attraente e ne era felice, ne andava orgogliosa come il pavone quando si muove con tutte le proprie grazie. I suoi occhi neri, penetranti, ancora addormentati come chi si è svegliata da poco senza neanche sciacquarsi la faccia per svegliarsi del tutto, si presentavano lucidi e dilatati e in quell’attimo, non sembravano quelli di una ragazzina che osserva curiosa la vita con l’ingenuità disarmante dell’età, ma piuttosto davano l’impressione di essere quelli di una donna matura ed esperta, che li apre dopo una infinità di orgasmi assaporati tutti in un’unica notte. Senza l’ombra del trucco, senza maschere di fondotinta, senza il rossetto che brilla sulle labbra, lei appariva ancora più giovane dei suoi quindici anni, più piccola che mai e, per questo, più seducente, più maliziosa.
Quando la natura decide di regalare ad un’adolescente la bellezza, questa esce fuori sempre, con o senza trucco che può eventualmente servire, solo per trasformare la piccola ingenua bambina in una giovane donna creata per l’amore, ma nel primo come nel secondo caso, è la giovinezza che trionfa unita alla bellezza e al desiderio. Ora la ragazza apre un po’ di più gli occhi, poi leggermente anche le labbra facendo uscire fuori ma solo per un attimo ritraendola immediatamente, la punta della sua lingua che, come una susina ancor acerba o una piccola anguilla, sarebbe stata capace, contro ogni moralità, di risvegliare persino gli istinti repressi d’un prete. Le sue labbra violacee, carnose e infantili al tempo stesso, erano talmente seducenti che anche lo specchio pareva diventare vivo come volesse avvicinarsi per unirsi a lei, e quel desiderio sarebbe stato lo stesso di chiunque si fosse trovato lì in quel momento ad osservarla di nascosto.
Forse avrebbe venduto per l’eternità l’anima al diavolo in cambio di una frazione di secondo nella quale poter appoggiare le sue labbra a quelle della ragazza. Del resto, quelle sensazioni che avrebbe provato in quell’istante, paradisiache, sarebbero valse assai di più delle sofferenze eterne dell’inferno. Ed io mi chiedo, a tal proposito, il motivo per il quale molti giovani siano tristi e insoddisfatti. Non riesco proprio a comprendere perché cerchino piaceri artificiali nella droga, nell’alcool, nel ritmo assordante d’una discoteca o nel rombo d’un motore da corsa. Ma perché non provano invece, loro ai quali l’età ancora lo consente, a baciare le labbra di una bella ragazza? Ma esiste al mondo forse, una droga o un paradiso più bello? più naturale? Non solo non fa per niente male ma ha anche il potere di elevare l’anima e il corpo, fin quasi a rendere immortali. E ancora mi rendo conto di quanta stupidità vi sia nella vita di clausura, nella castità, nella rinuncia ai piaceri del sesso e dell’amore per godere poi di una ricompensa in una ipotetica vita futura. Ma esiste una grazia o una gioia più pronta ed immediata del bacio di una quindicenne? È questo il paradiso, è già qui su questa terra, a portata di mano, non ne servono altri, non c’è alcun bisogno di cercarlo altrove o in altri mondi. È la sensazione che si proverebbe, non è forse un dono di Dio per arricchire i sensi e l’anima? Ma ecco che ora, sempre davanti allo specchio, l’unico fortunato al quale è concesso di ammirare le sue grazie, la ragazza sbadiglia una volta, poi una seconda ancora, allargando le braccia sia a destra sia a sinistra, portando avanti il petto, mostrando in tutta evidenza due seni adolescenziali ma già abbastanza formati, bellissimi che, anche se coperti dalla camicetta del pigiama, come due piccoli vulcani, sembrano rappresentare la creazione più bella di chi ha inventato il corpo d’un’adolescente, il più grande capolavoro artistico di tutti i tempi fatto da uno scultore, la parte più importante del quadro d’un pittore. Se qualcuno presentandosi lì in quel momento esatto, avesse avuto la fortuna e il tormento di osservarla in quel gesto e avesse avuto poi il permesso di palpare quei seni, riterrebbe la propria vita completa, poteva anche morire ormai, il destino non avrebbe potuto mai e poi mai riservargli gioie e sensazioni più forti di quelle già provate in quell’attimo. La ragazzina intanto sembrava essersi svegliata completamente, si tirava i capelli in su con le mani, faceva smorfie allo specchio come in un film muto, si abbracciava da sé, si piaceva. Quel viso un po’ da bambina, faceva già presagire la bellezza che avrebbe poi avuto da donna. Poi si alza di scatto dalla sedia e girando improvvisamente le spalle allo specchio come per dispetto, si guarda il suo sedere che, anche se coperto dal pantalone del pigiama color azzurro con palline bianche, le si mostrava perfettamente sodo e armonioso malgrado la giovane età. Anche quella parte del suo corpo, come ogni altra del resto, era perfetta e senza alcun difetto, pareva più forte di una calamita capace di attirare su di essa mille mani. Poi la ragazza smette di guardarsi, un’abitudine e un vanto che usava fare tutte le mattine, e poteva permetterselo data la sua bellezza, e comincia a guardarsi in giro rapidamente, osservando il solito inconfondibile disordine di sempre al quale era ormai abituata, anzi le sarebbe sembrato strano il contrario, e senza smuovere un dito per mettere a posto la benché minima cosa di là dentro, si sdraia a peso morto di colpo sul suo lettino con la faccia in su e gli occhi rivolti al soffitto, al posto del quale, a quell’età, si vede il cielo.
Rimane così immobile a pensare a tutto o forse a niente. È difficile entrare nei pensieri d’un’adolescente, soprattutto mentre la si osserva in quell’espressione. Non può farlo nessun bravo scrittore, non posso farlo nemmeno io. Quella ragazza così sconvolgente si chiamava Fia. Il suo nome di battesimo era Sofia ma a lei non è mai piaciuto scritto in quel modo, le sembrava la capitale della Bulgaria.
Avrebbe voluto chiamarsi Sophia semmai con la ph al posto della f. Ma, visto che non le era stato possibile, decise di farsi chiamare col diminutivo di Fia. Tutti i suoi amici e le amiche cominciarono a chiamarla così, e poi anche i suoi genitori si abituarono a farlo. Così per tutti, ormai lei era Fia.



... Mosè
Abitava ad Enna, una piccola e tranquilla, si fa per dire, cittadina siciliana, quasi un paese per il numero di abitanti, 28.000 circa, posta a quasi mille metri di altezza su un ripiano dei monti Erei. È un centro agricolo e minerario che si estende con pittoresche viuzze su una terrazza che domina l’alta valle del fiume Dittaino, sul ciglio del quale si ergono il Duomo e il Castello di Lombardia, uno dei più imponenti della Sicilia, con elementi costruttivi bizantini, normanni e svevi. Fu Enna un antico villaggio siculo e colonia greca che nel corso della storia passò dal dominio dei cartaginesi a quello dei romani per poi divenire una importante fortezza del Medioevo. Si trovò in quel periodo sotto diverse mani, dai bizantini, agli arabi, dai normanni, agli svevi, poi agli aragonesi. Oggi, in quella città, ci si conosce quasi tutti come fosse un paese e le chiacchiere della gente sono diventate pane quotidiano. Non avendo molto da fare, si mormora, si spettegola spesso in buona fede o a fin di bene, ci si interessa dei fatti altrui molto più che dei propri. Così un segreto che avrebbe dovuto rimanere tale, finisce presto per passare di bocca in bocca, con notizie aggiunte o insinuazioni fantasiose che, via via che lo si racconta, modificano del tutto il contenuto, fino a diventare un fatto di dominio pubblico che non sempre coincide col vero. Del resto, la città offre ben poco per potersi distrarre senza pensare alle cose del vicino. Niente locali di intrattenimento, niente discoteche per chiunque ami ballare, niente associazioni o aggregazioni culturali, neanche lo sport e specialmente il calcio, riesce a sopravvivere in quella città. A tutto questo, va aggiunta una disoccupazione elevatissima che non riguarda solo Enna ma tutta la Sicilia e gran parte del meridione. Così a molti giovani, finite le scuole, non rimane che emigrare in cerca di occupazione, al nord soprattutto. La città, la più alta d’Italia dal livello del mare e invece giù in basso in tutto il resto. Ma la sua gente sa anche essere ospitale, generosa, disponibile e altruista come tutta la gente della Sicilia e del sud d’Italia che si mostra solare in armonia col suo stesso clima.
Ma Mosè era, diciamo così, un figlio adottivo di quella città. Non era nato lì ma vi si era trasferito da più di dieci anni ed era diventato uno del luogo ormai. Aveva vissuto per oltre mezzo secolo a Roma, la sua città natale e della capitale conservava ancora l’accento. Poi, per una serie di strane circostanze che in pochissimi conoscono, il destino lo portò definitivamente in Sicilia, proprio ad Enna, nel cuore dell’isola. In città ma anche nei paesini limitrofi, lo conoscevano quasi tutti. Lo salutavano in tanti ogni qual volta lo si incontrava per strada e lui si fermava volentieri a parlare con ognuno di loro. Aveva molti amici di qualunque età o estrazione sociale. Era amico dei bambini, dei ragazzi, di uomini e donne, di anziani, di tutti insomma. Certamente quasi nessuno condivideva ed approvava quel suo stile di vita quasi da randagio e da barbone, tipico di chi affida alla strada la propria dimora senza un porto sicuro, senza famiglia. Nessuno poteva giustificare quel suo modo di vestire completamente trasandato che lo rendeva simile ad un poveraccio, a metà tra un mendicante e uno zingaro. Ma lui era felice e si realizzava così. Era sereno, si sentiva libero come un gatto che non ha padroni, al di fuori di una società che mostra una faccia perbenista davanti e poi, di nascosto, rivela una doppia vita piena di fango e perversione, prostituta, figlia del denaro, della competizione commerciale ed economica, dei facili guadagni. Mosè aveva uno spirito libero, due occhi rimasti da bambino che osservavano il mondo come fosse un nuovo giocattolo da esplorare. I compromessi di una società che plagia tutti piegandoli al proprio volere, no, non facevano per lui. Aveva una mente troppo elevata ed un cuore troppo nobile per rinchiudersi in una gabbia fatta di regole comportamentali, dogmi assurdi e pseudoculture. Niente massificazioni, niente opportunismo, niente convenienze. Lui aveva scelto di vivere libero, prendendo solo ciò che una giornata poteva offrirgli e niente di più.



... Fia
Era stata adottata Fia da quando aveva solo pochi mesi. I suoi veri genitori non li aveva mai conosciuti né voleva conoscerli. Non sapeva neanche se esistessero ancora o il motivo per il quale l’avessero abbandonata. Non aveva proprio la curiosità di saperlo; non li odiava, Fia non sapeva odiare, nei loro confronti era solo indifferente. Li aveva cancellati e basta, così come forse loro avevano fatto con lei quando era nata.
Li aveva sostituiti con i genitori adottivi che, a modo suo, voleva bene ed amava più di ogni altra cosa al mondo, considerandoli come genitori naturali. Suo padre, Adolfo, 60 anni appena compiuti, un signore distinto, d’aspetto ancora gradevole, con una discreta posizione sociale, era proprietario di una farmacia. Voleva bene alla figlia tanto da non averle mai fatto mancare nulla, assecondando quando poteva farlo, tutte le sue richieste. Non era tuttavia una generosità insita nella sua stessa natura. Il suo modo di essere e di comportarsi infatti, anche nei confronti della moglie, si mostrava poco incline ad indulgere in atteggiamenti sentimentali o espansivi. Quest’ultima, Teresa, di cinque anni più piccola di lui, era una signora anche di bell’aspetto, con una spiccata vocazione altruistica e conseguentemente molto predisposta verso la figlia, alla quale voleva un bene immenso. L’aveva considerata da sempre come figlia naturale, amandola come fosse stata lei a partorirla.
Non poteva avere figli e per questo l’aveva adottata e quella bambina divenne subito il suo motivo di vita, la concentrazione di tutte le sue aspirazioni e dei suoi sogni. Fia lo sapeva bene, lo aveva sperimentato e ne ricambiava l’amore con fiducia. La madre era la sua consigliera, le nascondeva poco o nulla, le rivelava tutto e subito. Avevano due caratteri simili, come fossero davvero madre e figlia. Le uniche ma sostanziali differenze consistevano solo in una certa modernità di vedute che aveva la figlia rispetto alla madre. Tanto che bonariamente e con un sorriso sulle labbra, Fia le diceva spesso: “Sei troppo all’antica, mamma, aggiornati un po’!”. Ma tutto questo rientrava nella norma, faceva parte del solito e scontato conflitto generazionale tra genitori e figli. Comunque se Fia aveva un problema, era sempre la mamma a saperlo per prima. Nonostante il diploma di Maestra di scuola, aveva preferito abbandonare l’idea del lavoro d’insegnante per non doversi spostare troppo e altrove per supplenze. Ritenne più utile dedicarsi alla casa, al marito e alla figlia. Fra l’altro, il lavoro del marito, fruttava una discreta sicurezza economica che risultava più che sufficiente per vivere bene. La vita, in quel paese alla periferia di Enna, Leonforte, non era per niente cara, e con quel guadagno si poteva andare avanti dignitosamente.
Solo ogni tanto, saltuariamente, effettuava delle lezioni private in casa a qualche bambino di scuole elementari. Ma lo faceva più per la passione di insegnare e di rendersi utile ai bambini che per una vera e propria necessità economica. Era nel suo complesso, una famiglia tranquilla come tante altre. Il marito lavorava, la madre faceva la casalinga, la figlia andava a scuola, la tipica famigliola italiana insomma, del sud meglio ancora dove, sia pur con qualche piccola giustificabile incomprensione, ci si andava d’accordo e d’amore gli uni con gli altri. Ovviamente la chiusa e ristretta mentalità di paese nel quale la famiglia viveva, finiva inevitabilmente per condizionare il modo di pensare e di agire soprattutto dei genitori che unita ad una forte ispirazione cattolica ereditata da secoli, non li rendeva immuni da pregiudizi d’ogni tipo. È Leonforte, il paesino in questione, un paesino vicino Enna, situato a circa 500 metri d’altezza, sulle prime pendici dei Monti Nebrodi, che vive principalmente di attività agricola e mineraria e che non ha più di 17 mila anime, dove tutti si conoscono e non succede mai nulla che non si sappia in giro. Non c’è niente di veramente importante degno di essere menzionato parlando di quel paese. Forse un palazzo baronale, relativamente antico ma nulla di più. Se qualcuno per ipotesi, da Milano, Roma o da qualsiasi altra città di una certa grandezza, venisse a stare a Leonforte, tenterebbe subito di scappare, non si adatterebbe mai alla noia, lo considererebbe un buco fuori dal mondo. Eppure, paradossalmente, tanta gente di quel paesino, emigrata per necessità lontano a cercare fortuna, ogni qualvolta che per le ferie si trovi a tornare a casa, non può nascondere le lacrime e una forte emozione. Non si è mai contenti nella vita, si cerca sempre di più e poi ci si ritrova più infelici di prima a rimpiangere quel poco che si aveva e che forse aveva più valore. Vi era però Enna vicino, dove molti giovani si recavano specie per andare a scuola, come la stessa Fia del resto, ma questa città in fondo era solo un paese più grande e non è che poi ci fosse molta differenza.
Spesso i giovani, nei fine settimana, si organizzavano in gruppetti per andare a Catania o a Palermo che offrivano molti più divertimenti e che parevano autentiche metropoli in confronto a quei luoghi. Gli anziani invece erano felici di abitarci, beati loro! Lì erano nati e lì volevano morire. Per loro Leonforte era l’America, la luna, l’universo intero e non esisteva altro. Erano piantati, radicati lì e nessuno poteva più smuoverli ormai. Avevano in quella terra le radici, vivevano delle loro abitudini, con la loro mentalità, sempre uguale, monotona ed era un delitto soltanto il pensare di poterla cambiare. Certe realtà in un mondo che oggi si evolve ad una velocità incredibile, vanno viste, sperimentate sul luogo, risulta difficile poterle descrivere o spiegare. Per loro rimasti contadini come tantissimi anni fa, contava solo la terra e il loro mondo, come se il tempo si fosse fermato ora e per sempre. Io, scrittore messinese, fortemente attaccato alla mia città, alla mia gente, alla mia terra con le sue bellezze e tradizioni, alla mia Sicilia, considero quei posti che sto narrando nel libro, come casa mia e li voglio bene, ma non posso non essere obiettivo nel mio racconto.
Ho sempre considerato lo scrivere come una confessione oltre che una passione. Io sono vero nella vita, così come lo sono nei miei libri. Quelle realtà, in quei luoghi e in tanti altri della Sicilia e non solo, esistono ancora ed è giusto metterle in luce. Ma non voglio giudicarle, non è nel mio stile, nella mia filosofia di vita. Bisogna sempre e comunque rispettare il loro modo di vivere e la loro mentalità. Quelle persone stanno bene così ve lo assicuro e chissà se il loro modo di essere è più vero e genuino del nostro! La piccola Fia, però, non stava per niente bene in quel paese. Amava i suoi genitori ma non sopportava quell’ambiente piccolo e ristretto dove ci si sentiva continuamente spiati e pareva di respirare accanto l’alito del vicino. Fia soffriva maledettamente per tutto questo. Si sentiva chiusa in gabbia con le ali tagliate, un pesce fuor d’acqua. Si sentiva moderna, anticonformista e in un certo senso ribelle. “Forse ne ho preso dalla mia vera madre”, pensava, “ma non lo saprò mai” e non le importava proprio di saperlo. “Ma quando compirò 18 anni, e non vedo l’ora, me ne andrò via di corsa da questo schifo di paese, mi dispiace allontanarmi dai miei genitori ma devo farlo, sì, devo farlo, è la mia vita e devo viverla come merita. Non voglio più vedere questo paese zotico e bigotto. Me ne andrò a Catania, a Palermo, già è un’altra cosa, Ma no, no! sempre Sicilia è. Andrò molto più lontano, a Roma, Milano, Torino, in una grande metropoli dove si può vivere in pace, ci si può divertire, conoscere tanta gente senza vedere le stesse vecchie facce che ti giudicano continuamente. Lì non ti conoscono tutti come accade qui. Mi troverò un lavoro e se diventerò ricca me ne andrò lontanissimo in America, in Australia, sulla luna, anche su Marte ma qui non tornerò più, questo paese non voglio più vederlo neanche col binocolo o in fotografia. Ma adesso che ho ancora quindici anni che faccio? Qui non c’è mai niente da fare. Io non mi diverto mai, non mi sono mai divertita. Ma che male ho fatto per nascere qui? forse sarebbe stato meglio in Africa o non essere mai nata. Sto buttando via i miei anni più belli, chiusa in casa, che spreco! La mia bellezza, la mia adolescenza passeranno in fretta lo so, e non torneranno mai più.





... il vecchio e la ragazza
Entrarono in fretta nell’abitazione senza neanche chiudere la porta. Fia era troppo decisa, sapeva di non poter perdere molto tempo, aveva calcolato tutto, era quello il momento giusto, ora o mai più e così rompendo gli indugi disse: “Voglio fare l’amore con te, Mosè!, voglio perdere la mia verginità!”. E lo disse con un tono così deciso e sicuro da sorprendere anche se stessa. Mosè sbiancò, si sentì di colpo in paradiso, poi all’inferno, cominciò a sudare, a tremare, a respirare convulsamente, per un attimo pensò di morire e trovò la forza per dire soltanto: “Anch’io sono vergine”.
Sapere che quell’uomo non avesse mai fatto l’amore con nessuno in 65 anni e che lei sarebbe stata la prima, in altre circostanze l’avrebbe sicuramente scioccata ma, in quel momento, lei non ci fece neanche caso, impegnata come era a portare a termine la sua missione.
Fece tutto lei, la ragazza ora sembrava la più grande professionista del sesso pur essendo anche per lei la prima volta. Ma l’istinto è superiore a ogni tecnica e sa guidare nella giusta direzione. Ora la ragazzina pareva molto più grande e matura del vecchio. Afferrò la mano di lui con la sua dicendogli semplicemente: “Vieni”, e lo condusse dritto verso il letto. Lui si lasciò guidare come un automa restando con la bocca aperta più impaurito che eccitato. La ragazza aprì in fretta la porta della, chiamiamola bonariamente, stanza da letto. Vi era un odore nauseante di rinchiuso e di muffa. Il letto, pieno di polvere e formiche, era più sporco che mai, perfino il cuscino si presentava male, non vi erano lenzuola né coperte, forse le aveva tolte Mosè per il troppo caldo. Ma a Fia tutto questo non importava. Poteva essere un letto fatto di urina e melma; poteva essere ricoperto di fiori e d’argento, sarebbe stata per lei la stessa cosa. Era altro che lei cercava, che lei voleva. Fia chiuse la porta, si sdraiò su quel letto, prima si alzò la maglietta sino al collo lasciando scoperta la parte che dal reggiseno arriva sino all’ombelico. Poi si alzò la minigonna lasciando libera quella che dalle mutandine arriva sino ai piedi. Si tolse in fretta le scarpe e quindi anche le calze e rimanendo in quel modo a faccia all’aria, si rivolse a Mosè che guardava incredulo e ammutolito, dicendogli: “Fai di me quello che vuoi, prendimi, scopami, amami”. Una scena così non la si può limitare descrivendola in un libro. Soltanto guardandola dal vivo, le si può rendere giustizia. Anche il più grande scrittore di tutti i tempi non sarebbe in grado di sostituire la visione con le parole e forse neanche capace di entrare in profondità nel corpo e nella mente di quel vecchio e di quella ragazza. La giovanissima ragazzina distesa, abbandonata sul letto con gli occhi un po’ chiusi e un po’ aperti, era bellissima, col suo corpo in penombra, in bilico tra innocenza e peccato, tra inferno e paradiso. Neanche il più inflessibile giudice d’un tribunale, o il più convinto assertore contro la pedofilia, neanche un santo, neanche un angelo, avrebbe potuto resisterle e non desiderarla. Mosè rimase sbalordito a guardarla. Avrebbe voluto farle mille complimenti, dirle mille volte grazie, renderla partecipe di quello che lui provava dentro. Ma nessuna voce poteva spiegare quelle sensazioni. Così non parlò. Timido, imbarazzato, totalmente incapace di effettuare la benché minima mossa, rimase così in estasi a contemplarla come un innocente bambino che vede apparire la Madonna per la prima volta. Ma lei non era una visione né un sogno, era vera, in carne e ossa, pronta per essere toccata, baciata, venerata, amata. La ragazza, sconvolta nei sensi e nell’anima di trovarsi lì ad offrire le sue innocenti nudità allo sguardo d’un vecchio, aspettava impaziente da lui un gesto, un segno ma il vecchio rimase impietrito come una statua senz’anima, dopo un breve tempo che alla ragazza era sembrato un’eternità, riuscì a dirle soltanto sottovoce: “Che devo fare?” A quel punto la ragazzina diventò sua madre. Prese dolcemente la mano destra di quel vecchio e la portò sul suo giovane corpo, guidandola con la sua, accompagnandola dappertutto come un’isola vergine da esplorare, dalle dita dei piedi sino alla punta del capello più alto. Non sono in grado, cari lettori, pur sforzandomi, di trovare le parole adatte per spiegare quello che provavano entrambi in quel momento. Certe emozioni, vanno vissute in prima persona, solo allora ci si può rendere conto. Nessun tribunale, nessuna censura, nessuna morale potevano annullare quelle emozioni così intense e se anche l’avessero fatto, avrebbero commesso un delitto. Il criminale non era il vecchio e neanche la ragazza, ma chi impedirebbe loro di farlo. Fia, poi con le sue mani, spinse dolcemente la testa del vecchio sopra di lei, facendo scorrere la lingua di lui per tutto il corpo. Fu a quel punto che sentì il bisogno di togliersi ogni indumento di dosso, restando completamente nuda alle carezze e ai baci del vecchio. Poteva arrivare di colpo Dio o Satana, un giudice o la polizia, il presidente della Repubblica o il papa in persona, loro due non si sarebbero mossi da quella posizione e avrebbero continuato imperterriti ad amarsi, non avrebbero potuto farlo pur volendolo. La ragazza, più audace che mai, spogliò il vecchio che rimase nudo davanti a lei. Era impressionante la differenza fra quei due corpi, ma gli opposti spesso si attraggono. Se fossero stati entrambi bellissimi, forse sarebbe stato meno eccitante. Il fascino del proibito, del peccato rendevano quel momento ricco di emotività e sensualità.
Era la danza della trasgressione, il trionfo della libertà assoluta. Ora i due giacevano in ombra, su quel letto, nudi. Lei sdraiata, lui inginocchiato davanti a lei. Fia ora osservava quel corpo di vecchio così diverso dal suo e le fece un po’ pena, capì dentro di sé la fortuna di essere giovani, la bellezza della giovinezza. Poi i suoi occhi si posarono su quel membro penzolante, le fece tenerezza, non le fece paura. Era la prima volta che ne vedeva uno in vita sua. Istintivamente allungò la mano e la posò su di esso. Ma fu un gesto sollecitato dalla curiosità e non dal desiderio. La ragazza si trovò in mano quella nuova e sconosciuta creatura e le sembrava di toccare un piccolo serpentello, morbido e caldo, simile ad un bastone di velluto. Il contatto con quelle mani calde e lisce, procurò un effetto devastante sulla psiche dell’anziano che raggiunse di colpo un’erezione notevole da fare invidia a un dio greco bello, muscoloso e potente. La ragazza, avvertendo sul palmo della mano quell’incredibile cambiamento, si spaventò e lasciò quella presa.
Il vecchio capì che era il momento giusto, aveva vinto le sue paure, il suo imbarazzo. Cercò in fretta il suo pantalone e tirò fuori dalla tasca il preservativo ma con le mani tremanti non riuscì a metterselo e forse anche per non averlo mai usato prima in tutta la sua vita. Ancora una volta fece tutto lei, la piccola Fia guidata dall’istinto che è il migliore maestro, più di qualsiasi insegnante o scienziato. L’uomo si distese sul corpo della ragazza ma non fu capace di compiere l’atto, sia per l’inesperienza, sia per l’emozione che stava riprendendo il sopravvento. Per l’ennesima volta, intervenne ad aiutarlo la ragazzina col suo istinto unito alla sua voglia. Aprì le sue gambe, riprese quel membro in mano e lo indirizzò lei stessa dove doveva andare, spingendo in avanti il bacino per favorirne l’operazione. La ragazza sentì solo un lieve dolore e non ebbe perdita di sangue. Non fu doloroso neanche per lui. La natura li aiutò entrambi per non guastare quel sogno. Il vecchio istintivamente cominciò a muoversi sopra di lei con dolcezza facendola gemere e sospirare ma anche lui non poteva fare a meno di emettere piacevoli lamenti. Con la mano destra appoggiata sul suo seno sinistro e con la sinistra sulle cosce e sulle natiche della ragazza, il vecchio aumentò il suo ritmo in un folle vertiginoso crescendo che coinvolse entrambi. Le sensazioni che quel membro le procurava dentro, erano molto più forti ed intense di quelle che si regalava da sola con le sue dita e ora lei si sentiva presa, amata, desiderata, si sentiva totalmente sua. Il vecchio, a sua volta, si trovava ormai in orbita, in un altro pianeta, fuori da ogni spiegazione umana e logica. Aveva aspettato 65 anni per farlo ma non aveva nessun rimpianto di aver atteso tanto. Anzi, se dovesse morire e rinascere un’altra volta in questa terra, aspetterebbe altri 65 anni pur di incontrare poi nuovamente la sua bellissima principessa Fia. Se in quel momento, fosse entrato lì dentro il papa e li avesse visti in quell’atto, avrebbe sorriso e li avrebbe benedetti.
Cari lettori, anche se quello che vi sto per dire vi sembrerà partorito da una mente folle, non posso non scrivervi che la scena di quel vecchio e di quella ragazzina che si amavano consapevolmente stringendosi l’un l’altra, era la più bella poesia che potesse esistere al mondo per mille motivi che non sto qui a enunciare per non sconvolgervi ulteriormente. I due raggiunsero l’orgasmo quasi simultaneamente e fu più bello ancora. Poi rimasero abbracciati e la ragazza decise in quel momento di ringraziare il vecchio facendo quello che non aveva avuto ancora il coraggio di fare. Avvicinò le sue labbra a quelle del vecchio e lo baciò appassionatamente come se si trattasse di un ragazzo della sua età. All’inizio avrebbe voluto soltanto sfiorarle ma poi la passione, unita al desiderio di baciare per la prima volta, la spinsero a unire la sua lingua a quella del vecchio, in una mescolanza di sapori e di saliva che stordì entrambi. La scena di una ragazzina di 15 anni che baciava appassionatamente un vecchio di 65 era pura armonia, il trionfo della vita, l’immortalità dell’anima che aveva il sopravvento sull’età del corpo. Quell’intenso bacio fu persino più bello del rapporto sessuale. Fino all’ultimo istante Fia dimostrò a Mosè la sua grandezza interiore, la sua comprensione, la sua dolcezza. Il vecchio e la ragazza avrebbero voluto restare ancora abbracciati ma tutto, nella vita, prima o poi ha una fine.
La ragazza guardò l’orologio: “È tardi, devo andare”, esclamò preoccupata.
I due si rivestirono in fretta senza dire una parola, non ve ne era bisogno, si erano già detti tutto. Il vecchio salì sul motorino, lei montò dietro e partirono verso quella villetta di Leonforte che li aveva fatti conoscere.
Quel vento che all’andata, alzando la gonna della ragazza, sembrava complice del demonio, ora compiendo lo stesso identico gesto, pareva agli occhi di lui un poeta che scriveva i suoi versi ispirati da un angelo. Per tutto il tragitto non parlarono, a volte il silenzio vale più di mille parole. Entrambi erano consapevoli che quello che era accaduto quel pomeriggio tra di loro, non sarebbe successo mai più, quella era stata la prima e l’unica volta.
Le cose belle, nella vita, non possono ritornare. Avrebbero potuto farlo anche altre cento volte, ma non sarebbe mai stato bello quanto la prima.
Il vecchio e la ragazza desideravano entrambi che finisse tutto lì per conservare insieme, nelle loro menti e nei loro cuori, la poesia del ricordo di quella prima ed ultima volta. Arrivati in quella villetta, osservarono insieme quella panchina dove si erano seduti per la prima volta conoscendosi. Le avrebbero fatto un monumento se solo avessero potuto farlo. Si salutarono con un semplice “ciao” e senza darsi un nuovo appuntamento. Il destino che li aveva fatti unire, ora aveva deciso di dividerli per sempre. Si separarono così ma entrambi avevano una strana luce negli occhi che li rendeva simili nonostante avessero un’età così differente. Quella luce la potevano notare tutti ma nessuno sarebbe stato in grado di capirne l’origine. Quello era un segreto che apparteneva esclusivamente a loro due e a nessun altro e restò tale per tutta la vita. Nessuno seppe mai nulla. Fia tornò a scuola più matura e serena. Era una bella ragazza, avrebbe avuto tanti corteggiatori, magari si sarebbe innamorata di un bel ragazzo, si sarebbe sposata e avrebbe avuto tanti bei bambini che a lei piacevano tanto. Ma non aveva più fretta, aveva una vita davanti per essere felice. E lui Mosè riprese la solita vita di sempre, col suo immancabile motorino, col saluto di tutta la gente di Enna, con la sua chiesa di San Raffaele, il suo parroco padre Santino e tutti i parrocchiani che continuavano a riempirlo di regali e di elemosine.
A me, cari lettori, non resta altro che concludere questo mio libro sperando che non vi abbia deluso e che possa essere servito a qualcosa e a qualcuno.




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