Dal 1982 Maram è fuggita tre volte dalla Siria. Abita a Parigi da ventitré anni, dove tiene un bagaglio che tenta di tenere chiuso, fatto di relazioni morbose e separazioni, di un lutto dolorosissimo. Fino a che, in seguito al rapimento di suo figlio e alle pretese di un Paese che si intrometteva nei suoi diritti senza rispettarli, ha deciso di non metterci più piede. “Ho divorziato con il mio passato, la mia religione, la mia terra, addirittura con la mia lingua. Eʼ stato così per tredici anni. Non ho scritto, non ho rivisto la mia famiglia, ho smesso di mangiare cibo siriano, di ascoltare la radio. Era la punizione che infliggevo al mio Paese, mi distaccavo da lui.” Era la fine dei suoi tentativi di rincorrere “lo statuto di donna rispettata”. Tutto quello che ne sarebbe derivato sarebbe stato una celebrazione dellʼindipendenza e della limpidezza, la confluenza del suo istinto in uno stile di vita che gli fosse armonizzato. “Sono una donna libera. Quando ero piccola le mie compagne me lo dicevano sempre. Allora non capivo questa libertà. Per loro era immorale perché nuotavo, ballavo, portavo delle minigonne, salutavo i ragazzi, andavo al cinema. La mia famiglia mi ha mandata a Damasco allʼuniversità. Io andavo in Inghilterra, amavo senza nascondermi un ragazzo di un’altra religione. Ho sofferto tanto. Per loro era una specie dʼinsulto, e per me invece era morale, onesto, non ipocrita, significava stare bene con lʼaltro, rispettarsi. Essere trasparenti, accordarsi con i propri pensieri.”
Uno estraneo mi guarda,
uno estraneo mi parla,
sorrido ad uno estraneo,
parlo ad uno estraneo,
un estraneo mʼascolta,
davanti
alle sue pene
pulite e bianche
piango,
sulla solitudine che unisce
gli stranieri.
Maram al-Masri